Città grigia, sabbiosa e polverosa, il Cairo.
Dove il sole brilla non brilla quasi mai, per l’inquinamento di un assurdo traffico e per le folate di polvere e sabbia che vengono dal deserto lì accanto e ingrigiscono anche le foglie degli alberi nelle zone – poche – più verdeggianti. Ci vorrebbero giorni, anzi settimane di pioggia torrenziale per ripulirle e forse non basterebbe. Occorrerebbe che donne e bambini per poche lire ripulissero le foglie a una a una con una spugnetta, allora sì.
È di un verde abbacinante, smeraldo disteso, invece, la piana del Nilo, fuori dalla città, e si interrompe all’improvviso: di qua è verde lucido, profondo, di là sassi e sabbia.
I campi di canna sono delimitati da file di palme e così i bananeti. E sotto le palme ci sono altre colture. Gli orti ben riquadrati, dalla terra nera, non aspettano più la piena del fiume, ma sono irrigati da una rete di canali che, come il sistema venoso, procede da quelli più grandi ai capillari che corrono fra due rialzi di zolle brune.
E gli orti danno raccolti continuati, a rotazione: banane dolcissime, fragole e pomodori tutto l’anno, cavolfiori giganteschi, malva per la malokia (vedi sotto), cipolle, prezzemolo, finocchietto, menta in rettangoli perfetti talora protetti dal vento con pareti di canne intrecciate. Proprio come si vede nelle decorazioni di templi e tombe di 4-5000 anni fa.
Gli egizi conoscevano, eccome, gli orti. Ce ne hanno lasciato precisa testimonianza: i loro frutti, assieme a quelli della caccia e della pesca, erano offerte per gli dei e accompagnavano faraoni, regine e dignitari nel loro ultimo viaggio perché, come in ogni viaggio, può sempre venire appetito e bisogna avere qualcosa da mettere sotto i denti all’occorrenza.
Ma conoscevano anche i giardini, com’è ovvio: per lo più protetti e riparati al centro del palazzo o della fattoria con fiori e piante sia da frutto che ornamentali o per donare frescura. Al centro, in genere, una vasca rettangolare per pesci, anatre e fiori di loto o papiri a seconda che ci si trovi nel regno meridionale o in quello settentrionale. Ambedue le piante, una volta unificati i due regni.
Proprio al centro della sala d’ingresso del Museo Egizio al Cairo c’è un pavimento che riproduce in una scala più o meno 1:5 (dunque una rappresentazione molto molto vasta e particolareggiata) un giardino appunto rettangolare.
Ma ancora più evocativa è, forse, una piccola maquette in legno e stucco di quelle che, rappresentando scene del vivere quotidiano, accompagnavano nella tomba il re o il nobile per prolungarne appunto la vita di ogni giorno. Un quadrilatero definito da un lato da un colonnato policromo, con un giardino racchiuso da alte mura, con la sua brava vasca al centro per pesci e loto e torno torno sette alberi di fico, con i suoi bravi frutti ben visibili. Anch’essa al Museo Egizio, non nelle sale fastose del tesoro di Tutankhamon, ma lì accanto, in quelle ottocentescamente affastellate dei ricordi della vita comune.
Cosa si piantava? Cosa cresceva? Quasi di tutto: persea, jujuba, susino, palma – ovviamente, fichi, salici, melograni, sicomoro, vite e pergole.
Stupenda la tomba di Sennefer, soprintendente dei giardini del tempio di Amon, il cui soffitto è decorato come un’unica pergola, tutta pampini, foglie, racemi e grappoli d’uva nera.
Orti e vigne: la bellezza e l’utilità; ma anche i fiori, per se stessi e, più spesso, per il loro profumo. Molte volte faraoni e regine hanno in mano mazzi di fiori di loto e il loro profumo serve alle seconde per sedurre i primi, che pare proprio non potessero resistervi.
Anche fiori per loro esotici, provenienti dall’oriente siriaco e persiano appena conquistati. In una cappella in fondo al tempio di Karnak, proprio accanto al sacrario, chiamata “orto botanico” sono rappresentate a rilievo (ma di certo prima erano anche colorate) centinaia di specie di fiori. Difficile per noi riconoscerli: forse il giglio, o è un iris? E l’altro potrebbe essere il tulipano: ma non venne molto dopo dall’estremo oriente? Inutile azzardare ipotesi, meglio lasciarsi semplicemente incantare da quelle specie sconosciute o difficilmente riconoscibili.
Del resto, scriveva il grande sacerdote Any nelle sue “Istruzioni”:
“Riempiti le mani con tutti i fiori
Che il tuo occhio riesce a vedere;
Di tutti quanti si ha bisogno,
E sarai fortunato se non te ne lascerai sfuggire”
Ezio Menzione – gennaio 2009
La malokia (o melokia) è una pianta erbacea che cresce in estate (ma in Egitto l’estate dura 300 giorni l’anno), penso sia il chorcorus olitorius.
Le sue foglie, cotte e finemente tritate, sono l’ingrediente principale del piatto contadino egiziano per eccellenza (ma lo si trova anche in città) dallo stesso nome.
In buona sostanza è una specie di minestra d’erbe, cui la malokia da una speciale gelatinosità. Se fatto bene ha un profumo delizioso, in cui sembrano comparire sia l’origano che le foglie di lime (ed invece no, ma credo sia il coriandolo). Si può usare brodo di carne e odori oppure, per i poveri, acqua; eventualmente i ricchi aggiungono carne tritata soffritta o polpettine di carne. La si mangia da sola o come accompagnamento laterale a piatti più forti (questo avviene soprattutto in città).
I contadini la mangiano quotidianamente (le foglie possono essere surgelate o in qualche modo, ma non so come, essiccate e poi usate).
Oggidì è considerato un piatto popolare e politico, siccome opposto ai depravati occidentalismi.
In Italia non son riuscito a trovarla, nè a MI al Lorenteggio nè a GE a Pré. Forse più facilmente d’estate, ma ne dubito.
Ezio
P.S. Non è tutta farina del mio sacco. Il riferimento è alla cuoca di origine ebreo-cairota Claudia Roden e al suo (ottimo) libro "La cucina del Medio Oriente e dell’Africa del Nord", ed. Ponte alle Grazie. Lì c’è anche la ricetta, semplice e precisa.