Da quasi venti anni, grazie alla dedizione, alla competenza e alla caparbia di persone straordinarie, cresce l’orto botanico delle conifere coltivate di Ome.
Oasi di pace, scienza e contemplazione dove prima c’era una discarica di laterizi.
Penso che nella rete degli orti di pace ci possa stare.
http://ortobotanicoome.altervista.org/
Grazie alle donne e agli uomini che hanno fatto e mantengono vivo l’Orto botanico di Ome.
Tutti loro, ognuno come ha potuto, ci hanno regalato un luogo di pace, bellezza e contemplazione, un luogo di scienza, un luogo di senso e speranza.
Sì, speranza, o comunque conforto per chi non si rassegna a un modo di vedere il mondo che ignora o dimentica la base della sua stessa esistenza. Quel fazzoletto di terra in località Paradiso, trasformato da discarica di laterizi in oasi di biodiversità, con il fatto di esistere ci dimostra “come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione”. Parole che prendiamo a prestito, non a caso, da L’uomo che piantava alberi di Jean Jono.
Con questo sito restituiamo agli artefici di quell’incanto una parte infinitesimale di quanto loro hanno donato. E non lo facciamo per ricompensarli, perché una simile sapienza e caparbietà non cerca ricompense o riconoscimenti.
Lo spirito con cui offriamo questo semplice dono è quello di Marco Polo nell’epilogo delle Città invisibili di Calvino quando dice: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Tentiamo di trasmettere, anche a chi non può visitarlo fisicamente o non è più capace di leggere l’alfabeto dei tronchi, il messaggio che è scritto a lettere cubitali all’Orto botanico.
Cerchiamo insomma di rimbalzare l’increspatura d’acqua che ci ha mescolato l’anima e che Antonio De Matola descrive nel suo Alberi e uomini di Ome (2006):
[…] così racconto al mio amico una vecchia storia pescata chissà dove, scritta chissà da chi: l’affido anche a te, lettore, divulgala se vuoi alle persone che ami, è facile che ti apprezzino per averla raccontata.
Un cerchio nell’acqua
Un ranocchio stava comodamente seduto su una foglia di un piccolo stagno: teneva d’occhio un insetto dalle lunghe zampe che pattinava sull’acqua.
Presto sarebbe stato a tiro e l’avrebbe mangiato in un sol boccone.
Poco più in là, un altro minuscolo insetto, un ditisco, guardava in modo struggente una graziosa ditisca: non aveva il coraggio di dichiararle il suo amore e si accontentava di ammirarla da lontano.
Sulla riva, a pochi millimetri dall’acqua, un fiore piccolissimo stava morendo di sete. Le sue radici si erano esaurite nello sforzo di raggiungere l’acqua.
Un’ape, invece, stava annegando.
Era caduta nello stagno e le sue piccole ali appesantite non riuscivano più a farla volare. L’acqua la stava inghiottendo.
Improvvisamente, da una pianta spinosa che allungava i suoi rami fino al centro dello stagno, una bacca matura si staccò e… plufff cadde nell’acqua.
E come un fiore che sboccia, sulla superficie dello stagno si allargò il primo cerchio, poi il secondo, il terzo il quarto…
L’insetto dalle lunghe zampe fu spostato dalla piccola onda e si salvò dalle grinfie del ranocchio.
Il ditisco finì addosso alla ditisca: si chiesero scusa e si innamorarono.
Il movimento dell’acqua trascinò l’ape sulla riva e diede da bere al piccolo fiore, salvando la vita ad entrambi.
Tutto per una piccola bacca caduta!
La morale di questa strana storia è che tutti noi siamo come piccoli cerchi nell’acqua di uno stagno, possiamo cambiare il futuro con tutto quello che abbiamo imparato e impareremo nella vita.