Gianfranco Zavalloni vive e lavora come dirigente scolastico in provincia di Forlì-Cesena. E’ fra gli ideatori dell’associazione di volontariato “Ecoistituto delle Tecnologie Appropriate – Centro di Informazione Nonviolenta” (GRTA-CIN) di Cesena (www.tecnologieappropriate.it). L’istituto, tra l’altro, possiede un orto didattico e una biblioteca specializzata sulle tematiche dell’agricoltura e dell’educazione ambientale.
Gianfranco Zavalloni è animatore della Rete Italiana delle Scuole di Ecologia all’Aperto (RISEA), che ha come obiettivo la diffusione nelle scuole del progetto “Orti di pace, sentieri della biodiversità, contadini custodi”. Il progetto punta al riconoscimento del ruolo naturale del mondo agricolo come punto di partenza di un’educazione ecologica.
Tra le sua pubblicazioni ricordiamo: “A scuola di ecologia nelle fattorie didattiche biologiche”, Distilleria Ecoeditoria; “Giocattoli Creativi”, Editoriale Scienza, 2002 e “Piccoli gesti di ecologia quotidiana”, 2004.
Negli ultimi decenni si sono succeduti numerosi cambiamenti nella società italiana, che hanno portato all’abbandono repentino delle aree agricole e rurali del paese, alla modifica prima della quantità e dopo della qualità delle produzioni, ecc. Tali cambiamenti, secondo lei, hanno portato a modificare anche il quadro dei valori di riferimento della cultura contadina?
Parlo per esperienza diretta, essendo nato e avendo sempre vissuto in campagna. A 49 anni, tra l’altro, sono tornato nella casa dove son fisicamente nato, giacché mia madre ha partorito tutti e tre i figli qui, in casa, questo è un segnale forte del legame con una cultura e un mondo, quello contadino.
Il più grande cambiamento che ha riguardato negli ultimi decenni la cultura contadina, io credo, riguarda la percezione che i contadini hanno maturato di sé negli ultimi 40-50 anni: quella di essere una cultura di serie b o di serie c, di non avere più una dignità e di aver perso la consapevolezza di essere coloro che mantengono la vita nel mondo, perché danno il cibo all’umanità. E’ diffusa la convinzione che nel mondo agricolo non c’è una vera economia, una vera produzione. A livello percettivo, culturale e simbolico il mondo della terra è passato per essere un mondo di arretratezza, di minoranza e, se vogliamo, di luoghi fuori dalla vita reale.
L’agricoltore che per lavorare ha le mani piene di terra è percepito come un agricoltore che ha le mani sporche, oggi i bambini difficilmente giocano in campagna con gli elementi naturali della campagna: acqua, terra, sassi, canne, alberi.
È più facile vedere il figlio di contadino giocare con un videogame davanti un televisore, piuttosto che giocare nella campagna con gli elementi naturali.
Non c’è più l’orgoglio di essere agricoltori, ancor di più oggi in una società esasperata dal punto di vista tecnologico, perché si è sofisticata in maniera estrema. Oggi o passa l’immagine di un agricoltore che ha la tv nella cabina di pilotaggio di un trattore, come dire l’agricoltura è compatibile con le nuove tecnologie, o l’immagine di un contadino arretrato, mentre l’idea che l’agricoltore si sporchi le mani per lavorare è sinonimo di arretratezza.
Attualmente qui siamo circondati da “ex cittadini” venuti in campagna che non sopportano l’erba, per cui la tagliano continuamente. Sono in lotta continua contro la crescita dell’erba, per cui questa non raggiunge mai quel livello in cui produce semi che, cadendo, rinnovano il prato, di conseguenza sono costretti a comperare i semi per riseminare l’erba, quando basterebbe farla crescere un po’ e lasciare che i semi cadano da soli. Se vuoi ti porto qui fuori e ti faccio vedere il vicino come tiene la sua terra è una roba folle. Questa è una metafora della città che è arrivata in campagna.
Esiste ancora una specificità della cultura contadina?
A mio parere la cultura contadina si è molto imbastardita. E’ successo quello che aveva preannunciato Pasolini negli anni ’50-’60, quando riconosceva al mondo contadino una primigenitura di tutta una serie di tematiche in un Paese che stava totalmente perdendo la propria identità. Da un’Italia in cui circa il 90% della popolazione era impegnata in qualche modo con la terra, si è passati ad un’Italia che ha scelto di industrializzarsi portando le raffinerie là dove non esiste il petrolio o di costruire grandi acciaierie dove non esiste l’acciaio. Si sono così occupati dei territori in cui c’era una civiltà basata sull’agricoltura, perché l’Italia era il giardino d’Europa, la Sicilia era il granaio dell’impero romano e così via. Abbiamo perso completamente queste tradizioni scegliendo di puntare sull’industria.
Questo processo ha coinvolto anche l’Emilia Romagna. Gli abitanti delle nostre colline, che erano poveri (poveri soprattutto di disponibilità monetarie, perché magari avevano tranquillamente da mangiare tutto l’anno ed erano ricchi di prodotti, però dovevano fare i conti con una società che richiedeva un bisogno di disponibilità monetaria) sono emigrati. Sono andati a Ravenna a lavorare all’ANIC, una delle più grandi industrie chimiche d’Italia; sono andati in Riviera romagnola, dove hanno messo in piedi l’industria del turismo, un tempo basata sul mare, poi sulle discoteche, oggi sulle droghe. Il che vuol dire anche riciclaggio di denaro mafioso dell’Europa dell’est ed italiano. Qualche anno fa un’indagine della magistratura ha provato che circa il 30% degli alberghi della zona di Rimini era in mano o comunque collegati ai mondi della malavita.Questo perché acquistare “contanti alla mano” alberghi, che magari vivono un momento di crisi, è una maniera per riciclare denaro sporco.
Ecco questo è ciò che accade in una zona, come la Romagna, che era la culla dell’ortofrutta. L’agricoltura in questa zona arriva dalla bonifica operata grazie alla “centuriazione romana”. Se si va appena fuori Cesena, i poderi migliori della nostra zona sono oggi diventati centri commerciali o aree artigianali.
Quali sono gli ambiti in cui questa si differenzia da quella urbana?
Bisogna distinguere tra chi è ritornato in campagna senza avere un’esperienza diretta della terra e chi ci ha sempre vissuto. I primi sono tornati alla terra con estrema convinzione. Persone che prima non avevano nessun legame con la terra o non avevano esperienze dirette, se non nei ricordi di qualche nonno, tornando alla terra lo hanno fatto con estrema convinzione, per cui sono nati fenomeni come cooperative, lo sviluppo dell’agricoltura biologica e biodinamica, le comuni, gli ecovillaggi ecc.. Questa tipologia di agricoltori spesso ha una convinzione culturale fortissima, ma magari non ha un’esperienza e una tradizione.
Chi possiede una tradizione, in generale, ha mantenuto un elemento, a mio parere essenziale per caratterizzare un certo percorso culturale legato all’agricoltura, che è la lingua locale o il dialetto. Chi vive ed è vissuto in campagna ancora riesce a parlare con il proprio vicino usando il dialetto, o meglio la propria “lingua locale”. Per noi è il romagnolo, nelle marche i vari dialetti marchigiani e via dicendo. Certo sono pochi quelli che parlano il dialetto, cioè la lingua materna, la lingua della propria bioregione.
Una statistica di qualche anno fa diceva che la quasi totalità del mondo agricolo italiano ha un’età media che si aggira sui 60 anni. Quasi nessun giovane ritorna alla campagna nelle nostre realtà. Ciò significa che se l’agricoltura sopravvivrà, sarà grazie al lavoro degli extracomunitari. In altre parole se la cultura contadina sopravvivrà nella nostra Italia, sarà grazie all’arrivo degli stranieri. Oggi ci sono i pakistani che lavorano nelle stalle e sono famosi per gli allevamenti; gli albanesi che fanno i muri a secco e così via. Questo processo produrrà un grande rimescolamento, per cui probabilmente si perderanno per sempre tutta una serie di riferimenti.
Chi tenta di fare una sorta di “non perdita della memoria” lo sta facendo in termini intellettuali, ma rischia di essere un’operazione morta. La maniera migliore per mantenere la biodiversità è far sì che i semi vengano seminati e diffusi tutti gli anni. Se noi prendiamo i semi e li mettiamo nelle banche dei semi o nei freezer, non facciamo un’operazione di mantenimento della biodiversità, ma facciamo un’operazione di tipo museale, che è perdente.
La nostra proposta, ad esempio, è: facciamo in modo che la gente si scambi i semi, che pianti talee, semi o piante ed innesti le marze, in modo che non si perdano. Facciamo in modo che si diffondano tutte quelle varietà che si stanno perdendo, ma che – per fortuna – qualcuno ha ancora conservato in qualche esemplare.
Quest’operazione fino a che punto può considerarsi una sorta di ritorno nostalgico alla naturalità perduta e quanto produzione di nuova cultura?
La discriminante sta nel fatto che l’agricoltura produce dei beni, che sono il cibo quotidiano, per cui nella realtà non è intellettualistico dire consumiamo prodotti locali, mangiamo prodotti che hanno legami con il territorio. Ad esempio, tutto quello che è la riscoperta dei cibi locali è certo valorizzazione di un’economia locale, ma anche valorizzazione di una cultura legata a quei cibi e valorizzazione di territori, di sapori, di odori, di passioni, di emozioni, di ritualità.
Una delle operazioni che più interessanti per cercare di contrastare l’idea che l’agricoltura è qualcosa di economicamente perdente, sebbene talvolta contestata, è stata sicuramente quella che ha provato a fare Slowfood, che ha legato il cibo alle comunità che lo producono.
In questa direzione lavorano anche realtà più piccole, come l’ASCI, l’Associazione di salvaguardia della campagna italiana. Esistono varie associazioni che da anni lavorano per la salvaguardia della cultura contadina, come la Fierucola, l’Associazione Civiltà Contadina, cooperative come l’Alce Nero. Si tratta di realtà che lavorano collegando alle attività di tipo produttivo, attività di riflessione e come dire “la raccolta di memorie”. Un po’ ciò che facciamo anche noi con la nostra biblioteca, collegata alle esperienze che portiamo avanti “legate alla terra”.
Il rapporto con il tempo, con la terra, con i cicli della natura, ad esempio, costituiscono un ambito di differenziazione?
Per chi lavora la terra essenzialmente si, anche se passa la cultura del “buon tempo e del cattivo tempo”. Faccio un esempio banale. La regione Emilia Romagna promuove 2 settimane all’anno nel periodo di maggio, quando esplode la natura, le fattorie aperte. Qualche anno fa durante in quell’occasione piovve. Era un anno di grandissima siccità e piovve proprio allora, la rappresentante dell’Assessorato all’agricoltura della Regione, in una relazione pubblica disse che l’edizione di quell’anno era andata male perché aveva piovuto, mentre i contadini non aspettavano altro che l’acqua da mesi. Questo episodio la dice lunga sulla distanza tra le due culture.
La cultura dominante arriva a dire che la neve è una calamità naturale quando arriva, perché tutto si basa sul principio che la gente deve spostarsi in autostrada quando nevica, mentre la neve è una ricchezza per la campagna, perché quando c’è neve c’è acqua, oppure d’estate quando c’è necessità che ogni tanto piova ci vengono a dire che ci sarà un fine settimana di brutto tempo, perché tutto si basa sul principio che chi deve essere favorito è l’operatore turistico della riviera. Ciò è folle, perché se non esiste la campagna, se non esiste l’agricoltura non esiste neppure ciò che possiamo mangiare.
Tra chi fa agricoltura si sono introdotti degli elementi di ciclicità, che sono completamente diversi da quelli dell’agricoltura tradizionale. Ad esempio, la ciclicità dei trattamenti agricoli, per chi non fa agricoltura biologica, è tale che ogni tot bisogna fare un trattamento, non si guarda chiaramente la condizione del tempo, dei parassiti, dei funghi o delle criptograme che sono presenti nel campo, si va a ciclo.
Questa è la nuova ciclicità introdotta da alcuni tecnici agricoli, consulenti in agricoltura ed anche talvolta dalle associazioni degli agricoltori. Da noi si usa dire “fare San Martino” per dire “fare trasloco”, questo perché l’annata agraria iniziava l’11 novembre, il giorno di San Martino, quando i contadini cambiavano padrone e quindi traslocavano.
In questo caso l’esperienza dell’agricoltura era entrata come modalità di pensare anche nella vita di tutti i giorni, penetrava la cultura comune. Così come, quando io ero piccolo, si studiava sui sussidiari che partivano ad ottobre con la semina e finivano a giugno con il raccolto, tutta la cultura scolastica era intrisa dei cicli naturali. Oggi invece, nei supermercati troviamo le ciliegie a novembre, le fragole a novembre, dicembre e gennaio, quella che era la tipica produzione stagionale è completamente superata dal commercio internazionale, per cui troviamo frutta e verdura dall’argentina, i vini del Sudafrica. Non c’è più un legame tra il prodotto stagionale e la vita di tutti i giorni, per cui, da una parte un po’ si sono persi i cicli, dall’altra si sono introdotte modalità cicliche di altro genere.
Nella nostra esperienza, invece, proviamo a recuperare la ciclicità all’interno di una serie di ritualità legate all’annata agraria.
La famiglia contadina “classica” era caratterizzata da una forma allargata, che riusciva a comprendere diverse generazioni in un rapporto di mutua collaborazione e di solidarietà. In una socio è valorizzazione di cultura e riti looretà in cui il concetto stesso di famiglia è in crisi, esiste ancora una specificità della famiglia che vive in contesto rurale? In cosa consiste questa specificità? Influisce sul modo di portare avanti l’azienda, come era in passato per la famiglia contadina?
Sicuramente la rivoluzione è venuta negli anni ’70-‘80, quando si è passati dalla famiglia allargata (nel podere di campagna vivevano anche quattro generazioni della stessa famiglia) ad una famiglia nucleare anche in campagna. Si sono rotti, a mio parere, dei nuclei in cui c’erano tutta una serie di meccanismi di mutuo soccorso ed una serie di cose che si facevano assieme. Si pensi alla raccolta del grano, che era un evento, ma anche numerose altre attività.
Oggi nelle nostre campagne non è raro trovare anziani contadini con la badante polacca, un tempo sarebbe stato impensabile. Un nonno rientrava in una dinamica familiare in cui c’era uno spazio anche per lui. Oggi è più facile che quando il nonno sta male, invece di metterlo al letto, lo si porta in ospedale, si delega a degli specialisti di volta in volta la soluzione di problemi che prima si affrontavano con il mutuo sostegno.
Qui prima conoscevo tutti i contadini, c’erano delle famiglie che erano dei nuclei di contadini di questo territorio, mentre oggi qui la maggior parte delle case sono vissute da persone che non fanno il lavoro della terra, ma lavorano in città ed usano la campagna come dormitorio oppure come prato inglese.
Anche per ciò che riguarda i consumi e il denaro, la cultura contadina appariva caratterizzarsi rispetto a quella urbana: la terra aveva un valore certamente superiore al suo equivalente in denaro, il prodotto alimentare un significato più complesso e importante rispetto al prodotto tecnologico, ecc. Il cambiamento avvenuto nella nostra società in seguito alla globalizzazione e ai cambiamenti nei consumi, si ritrova senza distinzioni nel mondo rurale? In cosa, secondo lei, i consumi delle persone che vivono in contesti agricoli e rurali si differenziano da quelli di chi vive in contesti urbani?
Non ci sono grandi differenze.
Il grande passaggio c’è stato dal momento in cui in campagna non c’era il sacco nero, a quando è arrivato il sacco nero, ossia nella campagna è iniziata la produzione di immondizia. Ho qui da qualche parte una lettera che scrissi nel 1986, quando in campagna iniziò a girare il camion della nettezza urbana. Raccogliendo le firme di tutti i vicini, allora spiegavo che in campagna non si producevano rifiuti, a parte un po’ di plastica derivata da acquisti in città. In seguito a questa protesta, per un anno hanno continuato a mandare questo camion gratuitamente. Poi, dopo un anno, hanno dimostrato che anche in campagna si producevano rifiuti, per cui è diventata anche qui obbligatoria la tassa per la nettezza urbana. Quello che Ivan Illich chiama la specializzazione degli esperti, a cui si delegano i problemi.
Oggi ci sono dei contadini qui vicino a noi, che buttano le potature nei rifiuti. Una cosa che non era mai accaduta. Ciò dimostra che sono cambiati i rapporti con gli oggetti, con le cose che il contadino aveva. In passato il contadino aveva pochi oggetti ed era un grande riciclatore, usava lo spazio attorno a casa per accumulare oggetti che poi potevano essere riutilizzati. Oggi si vedono i contadini che gettano le bottiglie di vetro, prima era impensabile. Questo è un indice del fatto che l’usa e getta della società dei consumi ha invaso anche la campagna.
C’è stato un cambiamenti negli stili di vita e di consumo anche negli alimenti. La maggior parte delle carni che si mangiavano prima erano quelle del maiale che si uccideva una volta all’anno.
L’altro cambiamento che si è visto dalle nostre parti c’è stato nelle abitazioni. Per l’ecoistituto abbiamo preso l’abitazione del contadino romagnolo come esempio di ecologia, di ciclo chiuso, di società dell’autoconsumo e autosufficienza. Questo modello è stato ripudiato dalla maggior parte degli agricoltori, per cui le nostre case nuove oggi sono esposte male. Non è neppure difficile vedere delle case nuove non utilizzate, sorte accanto a vecchie case di edilizia rurale certamente più compatibili.
Guardando alla situazione delle nostre realtà urbane, si nota come sia ancora viva la presenza di un passato non troppo lontano in cui persone e famiglie si sono trasferite dalla campagna alla città. Ciò è evidente, ad esempio, dalla presenza di agglomerati urbani abitati da persone provenienti dalla stessa zona geografica che mantengono legami con la propria terra d’origine, visibili dalla tipologia di abitazione, dalla cura degli spazi esterni (giardino, orto), dal “consumo” culturale e dalle relazioni sociali.
Tutto ciò può essere considerato come una presenza di una cultura contadina in area urbana e quindi in qualche modo di un processo di integrazione/differenziazione che ha portato alla compresenza di più culture sullo stesso luogo (come avviene ad esempio con le comunità di stranieri)?
Queste esperienze hanno anche delle motivazioni economiche. La produzione di ortaggi e la distribuzione nell’attuale sistema ha portato un aumento spaventoso del costo dei prodotti. Chi fa l’orto in città ha un notevole risparmio ed anche una qualità migliore. Il sistema di distribuzione attuale fa si che i prodotti dell’orto abbiano talvolta dei costi spropositati, ma non alla produzione, al consumo.
Si pensi che in Russia e nelle Repubbliche ex sovietiche in molti casi gli effetti del tracollo sono stati attutiti dalla presenza di un piccolo orto, che il regime sovietico garantiva presso tutte le famiglie. L’orto ha rappresentato una fonte di sicurezza per una società al tracollo.
L’orto è una bella esperienza per ricucire i legami con la terra. E’ anche un fenomeno di tipo terapeutico. Oggi lavorare con la terra vuol dire stemperare le situazioni di disagio, perché la terra ti obbliga a dei ritmi, a dei tempi, ad un rapporto che è giocoforza di tipo non violento. Di fatto può essere una soluzione intelligente quella di diffondere l’orto cittadino.
In Germania ho visto degli orti urbani che sono diventati dei luoghi importantissimi di aggregazione, forse negli orti urbani oggi si ricreano delle situazioni di relazioni sociali che c’erano prima nella campagna.
Secondo lei, il mondo agricolo e rurale è ancora in grado di produrre nuova cultura, oltre che di trasmettere i valori della cultura tradizionale contadina? E’ capace di rielaborare in modo originale valori e tradizioni che provengono da altri contesti (ad esempio quello urbano)? È capace di portare all’esterno i propri valori?
Il mondo agricolo consuma cultura urbana, perché è interno al circuito televisivo, che ha degli effetti devastanti. A mio parere, tuttavia, i contadini producono anche una cultura legata alla terra, di cui non c’è consapevolezza. Sono pochissimi a mio parere coloro che sono consapevoli che fare l’agricoltore è un gesto politico, culturale e sociale, oltre che economico. Anche in questo caso la responsabilità della scuola e della famiglia è fortissima. Oggi dare del contadino a qualcuno è ancora una maniera per offendere, dire sei un contadino è un modo per dire sei un ignorante, uno che non è andato a scuola, che non sa fare nient’altro. Dietro al lavoro della terra c’è un grandissimo livello di consapevolezza, di intelligenza, di cultura, di capacità di unire le cose. La terra da questo punto di vista è una grande maestra di relazioni e di biodiversità.
A mio parere, ha ancora senso parlare di cultura contadina, nel momento in cui c’è tutto un lavoro, venuto fuori in questo ultimo periodo, che ha definito una presa di coscienza in tal senso. Se vuoi ti faccio vedere dei libri che abbiamo qui in biblioteca, che rappresentano degli aspetti dell’attuale cultura legata alla terra. Di solito affrontano degli elementi circoscritti per argomento o a livello territoriale.
Bisogna, poi, considerare che esiste una differenza forte tra “chi ne parla” e “chi fa”, il mondo agricolo ha una cultura più orale.
Cesena, 06 febbraio 2007
A cura di Monica Caggiano Immagini e storie del mondo rurale contemporaneo
(Progetto cultura contadina)