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IL VILLAGGIO DI FATIMAH E IL GRIGIO OLTRE LA SIEPE

È strano come una storia tristissima possa talvolta consolare quanto e più di una allegra. Il pensiero dell’inesorabile marginalizzazione della foresta, della sua erosione implacabile, del suo ridursi a brandelli di verde  toglie – proprio alla lettera, insieme all’ossigeno –  il respiro.

O meglio: quando ho aperto il libro di Iain Buchanan, Il villaggio di Fatimah (Libreria Editrice Fiorentina) sono rimasta col fiato sospeso di fronte all’incanto della foresta primaria resa in immagini di quasi inquietante minuziosità, al punto di darmi la sensazione di trovarmi proprio lì dentro, di potere toccare le chiome di quei grandi alberi, ascoltarne il silenzio rotto di tanto in tanto dal grido di un animale. Quante volte, ragazzina simile alla Fatimah protagonista di questa parabola del nostro tempo, mi sono detta che lì avrei voluto vivere. Vivere! Da bambina non immaginavo che quei villaggi immersi da tempo immemorabile nella dimensione fiabesca della foresta sarebbero stati assediati da ruspe e macchine strepitanti. Non sapevo che le fragranti case in legno intagliate dai bisnonni sarebbero diventate reperti da museo, che gli animali della foresta sarebbero stati cacciati e ridotti alla fame, che a quegli incredibili fiori dai colori fin troppo accesi e le radici aeree sarebbe toccato cercare scampo negli orti botanici del mondo, mentre alla grande tigre avrebbero assegnato pochi metri quadrati in uno zoo. È la storia del nostro pianeta un tempo verde, adesso grigio di polvere. Ancora bambina, Fatimah vive in riva a un fiume fresco e placido tra gli alberi, con argini ripidi, acqua trasparente per la casa e l’orto nella stagione asciutta. Adolescente, si trova rinchiusa come in una gabbia in un casermone di cemento. Terribile! E la consolazione? Non è soltanto sentirsi accompagnati nella consapevolezza di tanta distruzione, ma anche vedere come, tra milioni di sommersi, qualcuno almeno abbia conservato la forza di non piegarsi a uno sconsolato mutismo, dare la stura al racconto, continuare a nutrire i colombi. Non si trova l’energia di narrare a meno che in qualche recesso dell’anima non covino, contro ogni evidenza al contrario, l’amore e la speranza in un ritorno, sia pure sotto altre spoglie, della meraviglia perduta.
La storia di Fatimah si svolge in Malesia, ma avrebbe potuto benissimo essere la Cina, l’India, il Brasile… o anche il nostro Nordest, quel Veneto che passava un tempo per  “Sud del Nord”  ma che poi, in preda a una sorta di “idolatria del fare”, è decaduto da epitome del bel paesaggio italiano in territorio di una geografia dell’angoscia. Il grigio oltre le siepi (Nuova Dimensione,  0421 74475), a cura di Francesco Vallerani e Mauro Varotto, racconta a più e accorate voci la trasformazione di una regione di memoria agricola in uno spazio saturato, che a chi lo attraversi da la sensazione di scorrere un’edizione tridimensionale della Pagine Gialle. Era una zona botanicamente ricca, punto di arrivo di specie originarie della steppa illirica, come lo scotano o albero della nebbia (Cotynus coggyra), il giaggiolo e la campanula siberiane (Iris sibirica e Campanula sibirica, il lino delle fate piumoso (Stipa veneta). Adesso in questo crocevia biogeografico l’orchide palustre (Orchis palustris) è estinta, la terra tutta consumata dai capannoni, dalle ville e villette dei “tavernicoli” di Marco Paolini, le case contadine ridotte a macerie sullo sfondo di vigneti industriali, mentre all’orto non resta che rifugiarsi in terrazzo.