Giorgio, “e mi bà” (il mio papà), ci ha lasciato dieci mesi fa. In due mesi esatti, tre ricoveri, due interventi alle gambe e poi l’addio per sempre, in ospedale. Una sola volta mi ha detto, felice: “oggi sto bene, vammi ci prendere un caffè al bar…”. E’ accaduto dopo che, per la prima volta, la fisioterapista gli ha insegnato come usare il tutore all’anca. Ma in quella mezz’ora gli ha anche chiesto quale era il suo nome, che lavoro aveva fatto nella suo vita, e dove abitava. E quando ha saputo di avere di fronte il coltivatore diretto ancora attivo in quel di Molino Cento, gli ha raccontato di essere stata anche lei, pochi mesi prima, presso una fattoria didattica molto bella. Il caso ha voluto che quella piccola azienda trasformata in “aula ecologia all’aperto” fosse proprio quella di Giorgio, che, subito, se ne è uscito con uno dei suoi profondi sorrisi. In quella occasione mio padre non fu considerato come una vecchia macchina entrata in officina per essere riparata oppure rottamata. Era un uomo … con un nome, con esperienze di vita da raccontare, vissute in un luogo preciso, fra le prime colline dell’Appennino e il fiume Savio. Ho ripensato spesso – in questi mesi – a quell’unico evento che rasserenò la degenza in ospedale di mio papà. E allora: perché l’ospedale di Cesena, anzi, ogni ospedale, non si organizza un proprio orto? Un orto ben curato, con tanti vialetti e tante aiuole di verdure, ortaggi e fiori. Un orto che abbia anche una bella serra di vetro per l’inverno e una zona dedicata al compost, elemento essenziale per cibare il terreno. Un orto ricco di erbe officinali (dette anche medicinali) e piante che favoriscano la riproduzione e la presenza di farfalle. Un orto con tanti alberi da frutto. Frutti per tutti i mesi dell’anno. Un orto vorrebbe dire, per chi resta pochi giorni in ospedale, riconoscersi in un elemento essenziale della propria bioregione, cioè nel luogo in cui viviamo, fatto di storia, di tradizioni, di cultura, di memoria. E così noi tutti (anche chi non è costretto in ospedale) potremmo beneficiare sia della semplice visione di questo piccolo “paradiso terrestre”, sia della possibilità di fare qualche lavoro nell’orto. E di sicuro avremmo bisogno di meno medicine e forse guariremmo più in fretta.
Gianfranco Zavalloni