Una delle viste più affascinanti che l’isola di Ischia offre ai suoi cultori è quella che dal Castello Aragonese guarda agli scogli di Sant’Anna, e così facendo abbraccia in un solo colpo d’occhio e tutto intero il promontorio dell’isola, chiamata anche Isola Verde, per la sua rigogliosità nonostante il torrido clima.
Come tradizione mitologica vuole (siamo o non siamo in Magna Grecia?), a questa splendida vista si arriva attraverso tre durissime prove, una fisica, una psicologica, una emotiva.
La prima. Si deve intraprendere un ripido percorso in salita, in parte sotto il sole cocente e in parte scavato nella roccia, si può sopravvivere solo se si è più che allenati e non si abbia ingurgitato nulla nelle ultime dodici ore, cosa quasi impossibile viste le innumerevoli pizzerie e gelaterie sopraffine sparse ad ogni angolo di strada ischitana. Se si sopravvive, senza aver avuto bisogno dell’unità coronarica, si viene precipitati nella seconda prova. Infatti, la guida turistica crede di espletare il suo preciso dovere conducendovi in una specie di fondamenta dove le monache, che un tempo vivevano nel monastero accanto al castello, seppellivano le consorelle. Ancora con il fiato grosso e in preda a un attacco di appendicite, potete ammirare una vera e propria sala semicircolare scavata nella pietra in cui i cadaveri venivano sistemati seduti come se stessero in conversazione. Di questa pratica macabra non vi viene risparmiato alcun particolare, compreso quello dei “colatoi”, cioè i fori nei seggioloni di pietra da cui i liquami dei corpi morti scomparivano fino a lasciare ossa e polvere davanti alle monache vive con l’obbligo di pregare ogni giorno accanto ai cadaveri. Meditando sulla fallacità della vita e sulla delicatezza del vostro stomaco, passate così alla terza e ultima prova che ha come scenario le rovine del “tempio” di Vittoria Colonna. Vi viene raccontata la meravigliosa storia della poetessa che lì visse e sposò Ferdinando Francesco D’Avalos, con un matrimonio d’interesse che invece si rivelò d’amore, siamo nel 1509. Se i fantasmi degli innamorati v’inducono a soavi pensieri romantici, è certamente per pochi minuti, il tempo impiegato dalla guida turistica per puntualizzare che vissero pochissimo la loro felicità, che lui morì lontano, in terra straniera, e che la donna dal dolore restò per molto tempo sospesa tra la vita e la morte.
Ecco, se siete vivi a questo punto – gambe rotte, stomaco sottosopra e cuore spezzato – vi siete guadagnati il diritto di guardare verso sud-ovest e gustare il superbo panorama degli scogli di Sant’Anna, il borgo di Ischia Ponte e il dorso del gigante che nasconde le pendici del monte Epomeo. E, anche se l’efferata guida continua a molestarvi cercando di portare la vostra attenzione sulle fessure del muro di cinta, attraverso le quali venivano versati torrenti di olio bollente sulle facce dei nemici all’assalto, non datele retta, state per incontrare l’altra cosa veramente speciale per cui vale veramente la pena di superare le tre prove del Castello Aragonese.
Sporgetevi dalla balaustra.
Sotto di voi si apre alla vista (e all’olfatto) un cappereto. La parete di contenimento fatta di pietre di varie dimensioni giustapposte nel corso di ben dieci secoli, ospita una densa colonia di capperi (Capparis spinosa). Le foglie carnose dalla forma arrotondata e i fiori a quattro petali bianchi o rosa elegantissimi e dagli stami viola molto appariscenti, formano un’onda dai colori cangianti secondo come il vento dell’isola piega i lunghi rami. Il profumo che si spande intorno ricorda insieme la magnolia e la fresia.
La spettacolarità del cappereto ischitano sta nella sua ragguardevole estensione, quasi un inno alla vita sopra le pietre della Storia, e nel fatto che non solo non è indicato nella guida turistica come attrazione del Castello Aragonese, ma gli stessi ciceroni lo ignorano completamente, passando accanto a questa meraviglia con assoluta indifferenza e indicandovi con pervicacia altri ruderi.
La stessa indifferenza ha colpito in un altro sito un altro cappero. Si tratta in questo caso di Genova, la biblioteca Universitaria di via Balbi a cui si accede da una imponente scalinata con prospettiva di colonne antiche, risalente al 1650, quando naque come chiesa dell’adiacente Collegio dei Gesuiti. Qui, l’anno scorso, si poteva ammirare un magnifico esemplare di pianta di cappero con i rami di oltre mezzo metro, installatosi centrale sulla pietra consunta della scala.
Durante l’autunno scorso, alla ripresa dell’anno accademico, professori e studenti degli atenei che in via Balbi hanno sede, fecero lezione all’aperto, proprio sulla scalinata della biblioteca, per protestare contro i tagli ai fondi per l’università. In quel frangente nessuno si è accorto del cappero che, scambiato forse per un erbaccia, è stato spazzato via, al suo posto qualche mozzicone di sigaretta e cartaccia ben pressati nelle fessure dei patrizi scalini. Ma, come abbiamo appena visto, il lutto non si addice al cappero.
Infatti, ora, nella stagione calda, è rinato e con più vigore: lungo i suoi rami, di grande apertura “alare”, stanno venendo fuori boccioli e fiori, una imperiosa decorazione di Madre Natura al rigore dell’architettura gesuita. Insomma, gli studenti sono stati ottimi giardinieri, loro malgrado, il trattamento radicale ha attuato una cura di rinforzo del cappero genovese che adesso è veramente al massimo del suo sfarzo.
E non è finita qui, il cappero è una pianta che può ancora stupirci.
Intanto, la sorpresa per l’eleganza del fiore è pari a quella che si prova nell’apprendere che, chi lo ama e vuole vederlo sbocciare deve rinunciare al cappero vero e proprio, l’umile servo di cucina, che non è il frutto della pianta ma il bocciolo del fiore.
Il frutto è un altro, viene chiamato cucuncio oppure capperone, ed è usato anch’esso sott’olio, sotto sale o sott’aceto, sebbene abbia ha un sapore più blando e sia perciò meno prezioso, anche dal punto di vista farmaceutico.
Il cappero potrebbe essere chiamato anche l’”acciuga del povero” oppure l’”acciuga del vegetariano”, perché la sostituisce egregiamente in molte preparazioni: una manciata di capperi sotto sale sciolti a fuoco lento nell’olio, per esempio, è succedanea all’inconfondibile gusto dell’acciuga sotto sale, cuore del sapore delle orecchiette con le cime di rape che sono il vanto della cucina pugliese; non meno interessante, poi è il pesto di capperi (olio d’oliva, capperi, noci, maggiorana) che accompagna spaghetti e linguine quando si vuole un gusto più deciso o quando, con la stagione fredda, il basilico e le altre erbe fini non ci soccorrono più.
A proposito di stagione fredda, chi volesse strappare un muretto a secco o una parete all’aperto all’invasione della parietaria può tentare di coltivare il cappero facendo come in Calabria dove usano proteggerne alcuni semi dentro un fico secco che viene poi schiacciato dentro le fessure. Se la semina dovesse dare scarsi risultati, si può ricorrere alla talea: dieci centimetri di ramo messi nella sabbia umida danno ottimi risultati. Basta che non siano del povero cappero di Genova che è già stato dal barbiere l’autunno scorso.
Ancora a Genova, in pieno centro, sorge il Teatro dell’Opera Carlo Felice, sopra il cui portico, ancorato tra i lastroni di marmo scolpito, da anni si sviluppa e sboccia una pianta di cappero, che è diventata simbolo del teatro tanto quanto i bassorilievi ottocenteschi che lo decorano. Forse la siccità delle ultime estati, forse qualche manutenzione incauta della facciata, fatto sta che a una osservazione attenta per il momento il cappero non appare. Ma conosciute ormai le sue mille risorse, siamo indotti a pensare che il cappero ci sia e che stia interpretando semplicemente la parte del Fantasma dell’Opera.
Ilaria Beretta
Ps Le guide turistiche di Ischia sono tra le più preparate e attente: nel racconto si è scelto di “esagerare” il loro ruolo per ragioni di trama, senza per questo togliere qualcosa al profondo rispetto per loro e la loro nobile professione.