di Ilaria Beretta
A chi tra i colleghi statunitensi, ammirati dalla sua cultura profonda e poliedrica, gli chiedeva quali scuole avesse frequentato, il docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Guido Milanese rispondeva: “Ho fatto con successo le elementari”. Questa frase, oltre a farci sbellicare dalle risate allora, è diventata nel “lessico familiare universitario” il codice di riconoscimento tra tutti i miei compagni, con un significato indeciso tra “elementare, Watson” e “scendi dal pero!”.
Anch’io, ho fatto con successo le elementari e, frequentando una scuola privata, ho anche dovuto sostenere alcuni esami, tra i quali quello di disegno, in cui ero una vera schiappa. Il mio successo in quell’occasione lo devo a mia madre che s’inventò un bozzetto fatto da un campo di grano con tante spighe, pennacchi stilizzati giallo oro facili da disegnare anche per me e, sparsi qui e là sul foglio, dei piccoli ghirigori rossi a significare i papaveri e blu, i fiordalisi.
Se avessi fatto quell’esame quest’anno avrei potuto aggiungere al disegno una mia nuova conoscenza, un fiore bellissimo: la Legousia (Legousia speculum Veneris). Viola profondo, ogni petalo sembra uno strappo di velluto, pur nella semplicità del calice allungato e della corolla formata da 5 petali regolari, ha qualcosa di cardinalizio che la rende preziosa, ancor prima di sapere che è un fiore in via di estinzione.
La Legousia, insieme al papavero e al fiordaliso, forma il coraggioso manipolo delle piante amanti dei cereali, perché come habitat prediligono i campi coltivati e i loro immediati dintorni; esse hanno un ciclo vitale simile a quello dei loro beniamini e, al momento della mietitura, sono ormai a semenza. Purtroppo la Legousia è anche specchio dei tempi, non solo di Venere come ci dice la sua denominazione scientifica, perché è diventato un fiore raro a causa dei diserbanti impiegati per far crescere il frumento e gli altri cereali. L’ho trovata vicino al torrente sotto casa, che non è lontano da vasti campi pianeggianti, adesso lasciati a se stessi o coltivati a foraggio, ma dove tanti anni fa – qui qualcuno se lo ricorda ancora – c’erano distese dorate o brune, proprie del grano, dell’avena, dell’orzo e della segale. E qui, oggi, rimane questa staffetta lanciata in avanti ma senza squadra alle spalle.
È un vero peccato che la società umana sia andata nella direzione delle coltivazioni intensive tralasciando di studiare, di più e meglio, come fare un’agricoltura che sia buona, abbondante, e anche bella.
Lo Specchio di Venere spiccava sul ciglio della strada arsa di sterpi e di polvere, ed è stata estirpata pochi giorni dopo dai cingoli del trattore che non era qui per coltivare ma per allargare il sentiero in vista di una passeggiata a cavallo organizzata da qualche maneggio blasonato dei dintorni. Ho fatto a tempo a prenderne dei mozziconi: sinceramente non so se ce la faranno a gettare l’anno prossimo; attualmente sono interrati in un angolo del roseto sotto una “Gertrude Jekyll” angariata anche lei perché le avevo scelto una posizione sbagliata, ed è andata deperendo finché mi sono decisa a cambiarle dimora. Ho pensato che, con un po’ di fortuna, l’anno prossimo, tra maggio e giugno, quando Gertrude avrà le sue corolle rosa carico, piccole e compatte dal profumo penetrante, ai suoi piedi un piccolo cespuglio di Legousia viola scuro potrebbe essere la sola compagnia consentita, da una rosa che per spine e andamento riottoso non ammette molti altri neighborhs: Miss Jekyll in persona credo che approverebbe!
L’incontro con lo Specchio di Venere, con la sua bellezza selvatica e la sua libertà, non vuole tanto farci rinvangare aratri trainati da buoi, povere mondine e braccianti sfiniti; il suo far capolino ci ricorda invece che al bisogno primario del cibo se ne accompagna un altro altrettanto urgente che è quello della bellezza. Ci nutre come il pane, e non dovremmo avere paura di cibarcene perché non c’ingrassa, anzi, ci rende più sottili nel guardare al mondo, alla vita e agli altri: la familiarità con un po’ di bellezza ci può dotare di una potente lente d’ingrandimento con la quale possiamo osservare la Legousia, con i suoi finissimi tre stigmi bianco-verdi sullo stilo del gineceo, e possiamo anche guardare meglio le cose, i volti delle persone che ci circondano, noi stessi, ciò che mangiamo… ed essere certi di vederli davvero!
Ilaria Beretta