Se in un pomeriggio di primavera: l’orto collettivo didattico a Valle di Ome
Di Vittorio Nichilo
Utopia esiste ed è una frazione di Ome in Franciacorta. In questo comune, vicino alla scuola in cui insegno, ho scoperto una di quelle storie speciali che ti sorprendono come palombelle, quel tiro ad effetto che illumina di stupore incredulo portieri e pubblico nella pallanuoto. Un pomeriggio di qualche giorno fa, dopo quel raffinato esercizio di ricamo sui massimi sistemi che risponde al nome di consiglio di classe, una collega vuol farmi vedere l’orto di alcuni amici. La macchina fila tra le colline e le cascine del nostro pedemonte e alla fine arriviamo in una frazione di Ome. Valle è un pugno di casette medievali, arroccate intorno ad una chiesetta dedicata a San Lorenzo, l’aroma appena acre di un filo di fumo che esce dai comignoli del borgo. Dietro uno dei muriccioli a secco si apre l’orto collettivo degli amici di Arianna. Orto didattico: la cosa comincia quasi a non fare più notizia, dato che, causa anche la crisi, l’orto è diventato, per certi versi, una moda. Del resto il nostro poeta dialettale sommo, Angelo Canossi aveva illuminato, tanti anni fa, il tutto con uno dei suoi guizzi salaci, che traduco: in tempi di carestia vale più l’ortolaneria dell’oreficeria.
A Valle di Ome però si respira l’aria fine dei posti speciali. Questo orto è singolare proprio a partire dal suo elemento fondamentale: il terreno, donato, nell’Ottocento, da una famiglia benestante all’intera comunità di Valle. La generosità dei contradaioli ha, poi, aperto questo spazio all’esperienza di un’esperienza davvero singolare.
Il lavoro di bambini, ragazzi ed adulti, ogni martedì pomeriggio, ha trasformato una vigna incolta di manzoniana memoria in un appezzamento dove si zappa, si rastrella, si semina e si trapianta con quella serietà che non concede deroghe e che è la terra stessa a chiederti quando decide che sarai tu a coltivarla. A dare corpo a questa utopia verde la passione di Elena Carera, Marina Svanera, Giovanni Conforti, Antonio de Matola, Luigi Moia e Wolfang Schaberg. Si lavora tutto l’anno, perché quando non si può coltivare la terra, della terra e dei suoi frutti si parla ai ragazzi, con divagazioni sul tema che emergono molte volte dalle domande dei bambini e dei ragazzi. Nell’edificio quattrocentesco che fa parte di questa antica proprietà c’è addirittura una stanzetta detta il pensatoio che agli amanti del cinema ricorderebbe sicuramente la grotta dei filosofi dell’Attimo fuggente. Quando si esce nell’orto, ogni volta è una scoperta nuova, sia per i più piccoli che per i grandi, dato che qui vige il metodo dell’insegnamento compartecipativo. Nume tutelare, grande vecchio di questo piccolo mondo sui generis, Antonio De Matola, volto di marinaio prestato alla terraferma, una via di mezzo tra Walt Whitman e Tiziano Terzani. Alla domanda che avrà sicuramente sentito tante volte, risponde con il tocco sempre nuovo di chi le cose le conosce e le ama, ovvero ricorda che l’obiettivo principale di questa esperienza è «stare insieme con le immutabili leggi della natura, scoprendo ogni giorno la cosa migliore nella misura delle nostre possibilità». Antonio ama del resto sciorinare massime come questa, con la naturalezza di un filosofo greco e la verve linguistica degli aforismi di Wilde, massime che se fossero scritte, unitamente ad un suo trattato di botanica sociale sulle piante che hanno rovinato l’umanità, che tiene però nel cassetto, farebbero di lui uno dei nostri più promettenti filosofi del giardinaggio.
Vittorio Nichilo