In tempo di emergenza, si ricorre agli orti di guerra. A me piacerebbe invece che gli orti fossero di pace: occasioni di convivialità, di apprendimento con e dalla natura, fin dai primi anni di vita. Anche a scuola, in particolare alle elementari e alle medie, perché a quell’età, forse meglio che ad altre, si è più ricettivi, più pronti ad apprendere dalla nostra più grande maestra: la natura stessa.
Anni fa ebbi la fortuna di partecipare al seminario tenuto da Masanobu Fukuoka in India, nella fattoria di Vandana Shiva, dal titolo “Nature as teacher”, la natura come maestro. Nel corso di due indimenticabili settimane, l’anziano agronomo giapponese, autore di La rivoluzione del filo di paglia, cercò di insegnarci a coltivare un senso di unione con la natura, mantenendo un atteggiamento di attenzione amorevole e mai di sfruttamento. Una mattina srotolò un foglio su cui aveva disegnato l’origine della nostra civiltà, ovvero l’Albero della conoscenza del Bene e del Male, col serpente attorcigliato intorno al tronco. «Sapete cosa ha insegnato il serpente ad Adamo?». Silenzio. «Sono anni che ci penso, l’ho capito questa mattina. Com’è il corpo del serpente? Ricoperto di scaglie, per questo si muove in una sola direzione. Può insegnare ad andare avanti, ma non a tornare indietro». Gli uomini non sono mai progrediti oltre la sapienza del serpente: sanno dividere ma non riunire, trasformare il petrolio in plastica ma non la plastica in petrolio, consumare risorse ma non crearle». E’ la direzione a senso unico, irreversibile, dello sviluppo.
E se invece fosse possibile aggiustare la rotta di questo percorso tutto monodirezionale? Imparare ad agire tenendo conto dell’andamento ciclico, mai lineare, della natura? Coltivando il nostro orto potremmo imparare anche a guardarci indietro: verso i frutti, gli ortaggi e gli animali dimenticati, l’aria e l’acqua pulita, un senso di comunità fra esseri umani.
Ci sono tanti modi di imparare dalla natura, occuparsi dell’orto è sicuramente uno di questi. Almeno per me è stato così, come ho raccontato in L’orto di un perdigiorno, il cui sottotitolo recita appunto Confessioni di un apprendista ortolano. Curare l’orto non è mai stato un fatto aridamente tecnico, ma un percorso accompagnato dalla consapevolezza crescente che dall’orto si trae un alimento non solo materiale: gli orti sono anche e soprattutto per il piacere di stare all’aria aperta, per la gioia di vivere e certo, perché no, per quella di imparare.
A mio parere, quando si passa del tempo nell’orto, con i bambini ma anche da grandi, non bisogna mai perdere di vista questo aspetto fondamentale: la gioia. Si tratta, in altre parole, di smentire la maledizione biblica del lavoro. Credo che per provare nell’orto quello spirito di felicità creativa con cui il bravo artigiano e l’artista considerano il materiale del proprio lavoro, bisognerebbe riuscire a superare quella terribile, rigida divisione fra lavoro e tempo libero, riuscire a occuparsi della terra in uno spirito che, anziché sul fine di produrre, sia concentrato nella gioia di vivere qui e ora.
Per me, lavorare in giardino e nell’orto è preferibile a tante attività considerare “divertenti” ma che non riescono a comunicarmi lo stesso senso di pienezza, di libero e creativo scorrere delle energie. Delle ore passate nel podere, ho bisogno come di qualcosa che, lungi dallo stancare, trasmette energia.
Mi piacerebbe che, a scuola. l’orto fosse il luogo in cui, attingendo alle energie della terra, i bambini potessero provare l’esperienza, cruciale per lo sviluppo della creatività non importa in quale ambito, del libero scorrere delle energie. Di quella concentrazione che nasce dal lavoro manuale a contatto con la natura, e con le energie naturali quando riusciamo ad avvertirle in armonia con le nostre. La conoscenza di questa gioia, di questa felicità, fonda la possibilità stessa della libertà, della non dipendenza coatta dai consumi. Privi di questa conoscenza, si rischia di diventare null’altro che consumatori passivi di merci.
Ai bambini, dunque, bisogna lasciar comprendere che la natura, molto più degli oggetti, delle merci, è una risorsa inesauribile di forza e felicità. Nell’orto non si va solo per ricavare del cibo, ma per prendere coscienza della bellezza del cielo, delle nuvole, dell’emozione dei mutamenti climatici. Ad ascoltare gli uccelli, osservare gli insetti, conoscere la pienezza della vita. Quando l’avremo conosciuta, ci sarà possibile desiderarla. I bambini non sono ancora così cinici da considerare ingenua questa domanda: che senso ha la vita? Perché non suggerire che siamo qui per celebrare la gioia di essere uomini e godere del contatto con la natura, creata o increata che sia. Deus sive natura, e viceversa: Natura sive deus.
Questa dimensione, quindi, non andrà mai perduta. Imparare è importante, ma ancora più importante, a mio parere, è l’esperienza della felicità, sviluppare un atteggiamento partecipe verso noi stessi e il mondo. Nell’orto non si dovrà mai avere la sensazione di svolgere un compito noioso, di occuparci di una delle tante materie obbligatorie, magari subite. Di imparare qualcosa di cui non si capisce il senso. Si svilupperà una sensibilità verso la natura solo a patto di non perdere di vista il nesso di ogni singola cosa con tutte le altre, e la curiosità di esplorare questo nesso. Chi è animato da questa curiosità non conoscerà mai la noia. Dovrebbe avere una buona probabilità di non diventare un consumatore coatto.
Trascorrere del tempo nell’orto sarà l’occasione di formare individui capaci di trarre gioia dalla natura, e che in un domani saranno quindi pronti a difenderla. L’orto non va visto in spirito solo produttivistico, per il sostentamento.
Detto questo, non si dà amore che non sia sostenuto dalla conoscenza. Ecco alcune cose che cercheremo di spiegare. Cos’è il terreno. Come si forma dalle rocce, e di quanti tipi diversi può essere. Ma lo mostreremo con esempi pratici: stringendo il pugno di terra, indicando le piante spontanee, rivelatrici della natura del suolo. Cercheremo anche di far capire che non tutto il nostro pianeta è fatto di terra: anzi, la terra vera e propria, la terra adatta all’agricoltura, è pochissima, sottile lo strato fertile, sempre più in pericolo di andare perduto l’humus. Bisognerà arrivare a capire che la terra, per quanto grande, per quanto tanta, ha bisogno di protezione, né più né meno di un bambino. Che il manto verde è per la terra, organismo vivente, quello che per noi è la pelle.
In questo contesto, spiegheremo anche cosa sono le cosiddette “erbacce”: piante pioniere, capaci di ricreare epidermide verde là dove l’uomo – o un cataclisma – l’abbia distrutta. Un po’ come la crosta di sangue che prepara e protegge la formazione di nuovo tessuto là dove c’è una ferita. Cercheremo paragoni con il mondo conosciuto dai bambini, con la loro esperienza diretta. In modo che possano provare empatia verso la natura, rendersi conto che non è un oggetto inanimato, ma un essere vivente, capace a suo modo di soffrire, che ha anch’essa una posta in gioco, proprio come noi. E che, distruggendo l’ambiente, l’uomo fa scomparire anche la possibilità di vita per molte alt
re specie, a lungo andare tutte. Un incendio, una grave siccità, un’inondazione, sono eventi che non colpiscono solo l’uomo, ma tante creature del mondo animale e vegetale, tanti esserini a noi cari.
re specie, a lungo andare tutte. Un incendio, una grave siccità, un’inondazione, sono eventi che non colpiscono solo l’uomo, ma tante creature del mondo animale e vegetale, tanti esserini a noi cari.
Certo, per coltivare ortaggi, dovremo mettere a nudo un pezzetto di terra, strappare la pelliccia, la cotica erbosa, togliere le gramigne che impedirebbero di coltivare le piante. Non ci sarà tempo di preparare a lungo il terreno, di aspettare anni. Ma in una scuola dove ci sia già un orto, il terreno sarà abbastanza buono; ai principianti basterà mostrare come scoprire un pezzetto piccolo, come attuare un primo dissodamento. Magari, in quel pezzetto, semineremo trifoglio in modo da avere intorno all’orto vero e proprio una striscia di protezione dalle “erbacce” più invadenti; il trifoglio, inoltre, come tutte le leguminose, migliora il terreno.
Ecco, una parola difficile: leguminose! La insegneremo anche, ma perché non dire qualcosa di più facile, come “la famiglia del fagiolo”. E poi spiegheremo chi sono i fratelli e i cugini del fagiolo, che caratteristiche hanno. Procederemo così anche con le altre famiglie: le ombrellifere saranno la famiglia del finocchio, e così via.
Qualche spiegazione la daremo in aula, magari invitando a disegnare gli ortaggi con radici e tutto: perché nel disegno, meglio che nella foto, si mettono in evidenza i dettagli importanti per distinguere una pianta dall’altra. Il disegno avrà quindi un’importante funzione educativa, insegnerà a osservare. Perché è solo al momento di disegnare che ci si rende conto di non avere veramente guardato quanto basta per riprodurlo quello che si credeva di avere visto.
In ogni caso, è importante che nell’orto ognuno possa realizzare la propria vocazione: chi disegnerà, chi scriverà, chi riparerà attrezzi, chi leggerà: non solo testi tecnici, ma anche testi letterari. Testi capaci di ispirare. Per me, per esempio, è stata fondamentale la lettura di Il giardino segreto.
L’orto sarà anche il luogo in cui faremo conoscere ai bambini gli insetti e le altre creature del suolo, come i lombrichi. Sarà insomma il luogo di scoperta della vita, in uno spirito non troppo diverso da quello di un meraviglioso libro di George Durrell, La mia famiglia e altri animali, permeato dal ricordo vivissimo dell’entusiasmo con cui, bambino curioso e felice in un’isola greca, compiva le sue osservazioni naturalistiche.
Spiegheremo che, per salvarsi da certi insetti, la soluzione migliore per le nostre piante è non tenerle sempre nello stesso posto, ma lasciarle migrare di tanto in tanto: per questo bisogna evitare di coltivare un ortaggio sempre nello stesso punto.
Quando un bambino si lamenterà che fa fatica, gli spiegheremo che lavorare (bene) la terra è più utile e meno costoso, meno noioso che non andare in palestra, come tanti adulti che hanno perso il contatto con la natura.
È importante sperimentare metodi diversi. Non solo biodiversità, ma anche “nomodiversità”. Un esempio: vediamo cosa succede ad avere aiuole concave accanto ad altre convesse. Alcune, quelle convesse, saranno più adatte alla stagione piovosa, mentre quelle concave, più basse rispetto ai camminamenti, saranno più adatte alla stagione secca. Non bisogna essere dogmatici, ma invitare all’osservazione e alla sperimentazione. Far capire quali difficoltà possono insorgere in un orto, invitare a suggerire soluzioni. Stimolare l’inventiva dei bambini, renderli consapevoli di quanta intelligenza ci voglia per fare bene il mestiere del contadino, di quanta destrezza manuale, di quanta presenza di spirito.
Vicino all’orto ci sarà una panchina, un luogo riparato, magari una pergola dove riunirsi, un bell’angolo da dove guardare, dove riposarsi, leggere, ascoltare. L’orto si troverà quindi all’interno di un giardino che farà da protezione e cornice naturale, un giardino dove sarà spontaneo aprirsi alla contemplazione disinteressata, al senso del bello.
E’ importante non far perdere di vista il contesto: l’orto/giardino ha tutto da guadagnare da un bel paesaggio che lo incornici, una natura sana che lo alimenti. Si osserverà quindi anche l’ambiente circostante per capire cosa eventualmente lo danneggi, cosa si possa fare per ovviare al degrado. Se le colline sono brulle, andremo nella stagione giusta a seminarvi ghiande o altri semi, magari ispirandosi con una bella lettura, L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. In altre stagioni, si potranno fare passeggiate in campagna e raccogliere erbi, insegnare a conoscere le proprietà nutritive della piante spontanee che crescono in quel grandissimo orto che è la natura stessa.
E’ utile anche raccontare ai ragazzi le proprie esperienze, come abbiamo noi stessi imparato, dove abbiamo sbagliato. Si cercherà di conoscere altre persone che lavorano la terra, imparare dalle loro esperienze, ma anche correggere i loro errori: inutile illudersi che i nonni ne sappiamo necessariamente più di noi, dopo decenni di agricoltura industriale, di uso sconsiderato dei prodotti chimici! Resta comunque importante confrontarsi con altre esperienze, anche per restituire il senso di una comunità. Non solo della comunità immediata, ma della più vasta comunità umana. Fino a capire che, sul modo in cui si produce il cibo, si gioca il futuro di noi tutti. E che, esclusivamente da soli, non si può fare nulla. Nemmeno coltivare il proprio orto.
Pia Pera