Combattere l’erosione dei suoli, combattere l’erosione mentale.
C’è una bella congiunzione, nel cielo, Venere e Giove si accompagnano e si
sorridono nelle prime ore della sera. Febbraio e marzo in loro compagnia,
complice una luna che sapeva tanto di stregato, anche se solo per qualche
giorno, hanno introdotto un marzo che sarà pieno di lavori nell’orto.
Non sono ancora tre anni che vivo a Cranno, neanche tre anni che mi sono
sistemato su questo poggio, vedetta sulla valle e custode di una cascata.
Dovevate ammirarla completamente gelata: si è rivestita di un manto algido,
una sorta di tunica lunga con un collo a sbuffo, un cratere sotto il quale
scorreva un rivolo d’acqua e, sotto, un laghetto ghiacciato.
Via il gelo, ora i -15 gradi sono alle spalle e nell’orto il tepore permette
di ricominciare a lavorare. Per prima cosa occorre preparare il terreno. Questo
è un poggio e dunque costituito da balze, terrazzamenti in declivio. L’erosione
è normale: la pioggia, la stessa forza di gravità spostano verso il basso masse
considerevoli di sostanza organica… che a me occorre tutta qui, in alto,
nell’orto, nelle strette strisce che devo apprestare alle coltivazioni.
Così, armato di pala, piccone, due secchi capienti, eccomi a spostar terreno
dal basso verso l’alto, pian pianino si recupera l’erosione e , dove sto
compiendo il lavoro, a ridosso di una recinzione, salvaguardo l’opera stessa e
scavo una sorta di trincea che mi permette un agevole passaggio e garantisce
che il successivo terreno che, naturalmente scenderà, venga fermato.
Solo fatica? Solo sudore? Per niente. Ho in mente le grandiose immagini, foto
scattate dall’alto di zone della Cina o della Thailandia: immense coltivazioni
di riso estese seguendo le curve di livello delle montagne, non un albero ma
solo risaie, una sull’altra, un lavoro di millenni, compiuto quando non
v’erano nè ruspe e tantomeno mezzi meccanici di nessun tipo. Generazioni e
generazioni di contadini, milioni di esseri umani che hanno saputo con rara
maestria rendere coltivabili colline, montagne in uno sforzo corale, una vera e
propria “poesia”, una poiesis, creazione collettiva che ha assicurato difesa
dall’erosione, e così nutrimento, sicura fonte di cibo per tutto questo tempo.
Non è più così: nel mondo, ben lungi dall’affidarsi alla sapienza dei popoli
contadini, l’attuale presunzione tecnocratica sta condannando milioni di ettari
di terra, una volta fertile, alla morte, alla sterilità assoluta.
Ciò che la fatica e la sapienza dei popoli aveva saputo creare svanisce,
annullato dalla smania di guadagno, dalla supponenza e dallo strapotere
multinazionale.
Sementi Ogm, tecnologie invasive, uso massiccio di fertilizzanti chimici ed
ecco che si sgretola, si annichilisce il connubio felice che il contadino aveva
saputo stabilire tra le proprie pratiche agricole e la terra.
I trattori sempre più pesanti, la sparizione di ogni coltura mista, in Asia si
allevavano le oche ed anatre in mezzo al riso, vi si pescavano le ranocchie e
pesci, si coltivava di tutto: ora non più, monocultura intensiva e fine del
paesaggio vario, intarsiato di alberi e colline, ponticelli e villaggi.
Erosione del terreno come mai si era conosciuta nella storia dell’uomo.
Erosione mentale, il contadino, ridotto a puro operatore, non conosce più
nulla, perse le sapienze millenarie, perse le canzoni.
Io volgo lo sguardo verso Giove e Venere e sorrido ancora. Sono un contadino
anch’io e riesco a cogliere i movimenti degli astri, non solo a premere i tasti
di un televisore. Mi dico fortunato, il computer mi serve a scrivere di queste
cose, calde, rimandare o tentare di rimandare pensieri, considerazioni che ,
chissà, potranno arrestare, un poco, la tremenda erosione mentale, non solo
biologica, in atto potentemente e folle, su questo piccolo pianeta che abito.
Buona Primavera, buon lavoro a tutti nell’orto e e nei giardini, buon lavoro e
che la fine, la fine, non si avvicini.
Teodoro Margarita